Si torna al consueto fondo nero antracite dopo un fine settimana di template rosso (ma più precisamente "color zafferano") a sostegno della protesta contro il regime birmano, accompagnato anche da maglia e nastro portati in giro nella giornata di venerdì. Intanto, come denuncia Enzo Reale, già i media mainstream ne parlano meno e la situazione in sé sembra avviata a un possibile e probabile fondo cieco (con la colpevole collaborazione dell'Onu).
Fra poco atterra l'inviato dell'ONU a sancire il ritorno alla normalità in un pranzo gentilmente offerto dai generali. Al mondo basterà non vedere altri morti per tornare a dedicarsi alle quotidiane occupazioni, quelle veramente importanti. La sofferenza non esiste se non la senti e non la tocchi e quella dei birmani è così lontana che solo il rumore degli spari può farcene arrivare un'eco, non certo le grida delle prigioni o il pianto silenzioso delle pagode.
A che cosa è servito, allora, fare il gesto di vestirsi – e vestire il blog – di rosso zafferano? Un po' la stessa cosa alla quale serve, di fronte a un lutto, fare la faccia triste: rendersi un po' meno indegni della tragedia.
O anche a quel che spiega Floria su Contaminazioni:
Siamo degli illusi? Ma certo che sì. Vittime del populismo? Chissà. Superficiali adepti della moda della protesta? Non so. Non lo so davvero. Ho preso quel nastro e l'ho attaccato alla borsa perché non sapevo che cosa altro fare. Perché non volevo sentirmi completamente impotente. Perché il silenzio, le mezze parole e le omissioni che mi pareva di cogliere nei discorsi dei diplomatici e dei politici e nei resoconti dei mass media mi irritavano profondamente. Perché, porca miseria, io avevo la possibilità di esprimere liberamente la mia protesta, per quel che poteva servire, i monaci birmani no, e in questo modo volevo farlo un pochino anche per loro, rivendicando al tempo stesso la mia libertà.